giovedì 20 aprile 2006

Storia & Identità

In coincidenza col sessantunesimo anniversario della conclusione della guerra di liberazione, sta mostrando sempre più crepe l’interpretazione che la vuole frutto unicamente di un movimento rivoluzionario contro un generico «fascismo», parola in cui si pretende di riassumere tutti gli aspetti sociali e istituzionali della nazione italiana non riconducibili alle categorie «progressive» delle sopravviventi ideologie moderne e quindi identificati come «reazionari»; quel movimento rivoluzionario sarebbe stato canalizzato ed espresso al massimo dalle strutture del Partito Comunista, cui, quasi per una ineluttabilità storica, sarebbe spettato il primato nella lotta che si combattè tra il 1943 e il 1945 e un ruolo determinante nella nascita di una «nuova» Italia democratica e repubblicana.

Questa interpretazione, in realtà, escludeva dalla scena di quanto accadde in quei drammatici anni tutta un’amplissima porzione della società, quella che non si riconosceva nei sogni di un utopico rinnovamento sociale da realizzare a ogni costo, anche con la forza, eliminando tutto ciò che potesse rappresentare un legame forte col passato, in primis la religione cattolica. Anche fra i combattenti della guerra di liberazione, dunque, vi furono non pochi i quali la vissero da «patrioti» piuttosto che da «partigiani», quale guerra per la libertà della patria comune dall’oppressione straniera e dalla dittatura interna, non certo per insediarne una nuova di stampo sovietico, e che erano mossi, nel loro agire personale, da una marcata religiosità. Tali personaggi non mancarono anche in quelle zone ove massiccia era la presenza comunista, come l’Emilia.

Fu questo il caso di Mario Simonazzi, il partigiano «Azor», su cui, dopo un silenzio pluridecennale e non casuale, fa ora luce una biografia sobria e pacata scritta dalla nipote Daniela, non storica di professione, ma autrice ugualmente di un pregevole e meritorio lavoro di ricerca, svolto consultando archivi privati e pubblici e interpellando i testimoni ancora viventi. Oltre alla memoria familiare, il fatto che precedentemente nessuno storico si fosse preso la briga di indagare su questa figura, spiega ulteriormente lo zelo della Simonazzi.

Mario Simonazzi nacque nel 1920 da una famiglia povera della campagna reggiana — il padre era falegname — e crebbe a contatto di istituzioni religiose quali la parrocchia, un collegio in cui frequentò il ginnasio, l’Azione Cattolica, cui continuò ad appartenere con impegno. Era l’Azione Cattolica di Pio XI (1922-1939) e di Luigi Gedda (1902-2000), quella guardata con diffidenza dal regime fascista per il suo ruolo alternativo nella formazione dei giovani e che, pur lontana dal costituire un partito politico, sarebbe stata la fucina di buona parte della classe dirigente italiana dopo il 1945. Il giovane Simonazzi fu assunto dalle Officine Reggiane e dovette alternare quel lavoro con i periodi in cui fu chiamato sotto le armi, in Aeronautica, dopo l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940. Durante il servizio militare, il suo zelo e la sua coscienziosità furono più volte lodati dai superiori. La preparazione così acquisita gli tornò assai utile dopo l’8 settembre 1943, allorché, senza esitazione, scelse di darsi alla macchia per combattere contro l’occupante tedesco e il fascismo repubblicano, valendosi di una rete di relazioni e dell’amicizia con Giorgio Morelli (1926-1947) — nome di battaglia «il Solitario» —, un altro giovane cattolico reggiano col quale iniziò la redazione dei I Fogli Tricolore, una pubblicazione clandestina che apparve quando ancora non esisteva un movimento resistenziale organizzato in Reggio Emilia e provincia. La linea di apoliticità che li caratterizzava, finalizzata all’unico scopo di liberare l’Italia dalla dittatura, si mantenne anche di fronte al brusco impatto con la realtà delle bande partigiane sull’Appennino, caratterizzate da atteggiamenti di indisciplina e brutalità accompagnati dall’ostentazione degli ideali rivoluzionari comunisti. Fu per questo che «Azor» — nome di battaglia scelto da Simonazzi e tratto dal nome di un personaggio del giornale cattolico per ragazzi Il Vittorioso — tornò in pianura ove organizzò molti uomini di cui fu riconosciuto capo, inquadrati nelle Squadre di Azione Patriottica (Sap).

La sua condotta delle operazioni belliche, col fine di evitare ritorsioni nazifasciste sulla popolazione civile, nonché la sua abilità nell’ottenere finanziamenti senza ricorrere a sistemi illeciti, se da un lato gli procurarono una grande popolarità, dall’altro gli causarono l’ostilità di molti esponenti comunisti dei Gruppi di Azione Partigiana (Gap), i quali assunsero nei suoi riguardi un atteggiamento di diffidenza e sfiducia anche in previsione del dopoguerra. Nei primi mesi del 1945, dunque, prima un suo collaboratore fidato e poi «Azor» stesso scomparvero — il vice-comandante partigiano fu ucciso il 23 marzo 1945 da altri partigiani, che poi ne occultarono il corpo in un bosco — e un clima di intimidazione accompagnò la scoperta del loro assassinio, grazie al ritrovamento dei cadaveri a Liberazione avvenuta. La famiglia Simonazzi non ottenne nulla dalla Questura cui si era rivolta perché indagasse, mentre l’unico che pubblicamente osava incalzare i capi comunisti affinché rivelassero tutto quello che sapevano dell’omicidio fu Morelli «il Solitario», ricavandone un attentato, le cui conseguenze gli avrebbero prematuramente stroncato la vita. Alcuni anni dopo, qualcuno affermò di conoscere gli assassini, ex partigiani, alcuni dei quali dopo l’arresto furono fatti fuggire clandestinamente in Cecoslovacchia, ma i successivi processi non avrebbero fatto piena luce.

Malgrado il perdono cristianamente accordato dai suoi familiari agli assassini rimasti ignoti, «Azor» non venne mai commemorato neanche nell’ambito delle strutture ufficiali della Chiesa reggiana, e francamente me ne sfugge il motivo. Non stupisce, viceversa, che solo in seguito alle ricerche della Simonazzi uno storico locale «ufficiale» abbia scritto un altro libro, nel quale si cerca di ridimensionare la figura di «Azor», presentandolo come un idealista che non aveva ben compreso la reale natura della lotta di liberazione e che forse sarebbe stato ucciso a scopo di rapina. La realtà è ben più complessa e proprio la reticenza sin qui mostrata, per esempio, dalle organizzazioni partigiane vicine al partito comunista ne è prova.

Una figura come quella di «Azor», un giovane di estrazione sociale modesta, ma di viva fede cattolica e di sincero animo patriottico, non collima con l’immagine del partigiano che ci è stata tramandata da certa retorica. Di più: l’immagine della Resistenza che oggi è ancora corrente, risente del travisamento operato intorno al 1968, allorquando si è gabellato per «resistenza» tutto ciò che mirava ad abbattere la società tradizionale, definita spregiativamente e impropriamente «borghese», con la sua etica e i suoi costumi reputati «repressivi» dai seguaci di una miscela di marxismo e di psicanalisi male assimilati. Non si vede, francamente, perché certi ambienti giovanili quali, per esempio, quelli dei cosiddetti «centri sociali», sarebbero i continuatori della Resistenza, quasi che i giovani partigiani del 1943-1945 fossero alfieri della droga libera e disprezzassero le responsabilità e le gioie connesse ai legami sociali e familiari.

«Azor» va associato ad altre belle figure di partigiani cattolici, come Teresio Olivelli (1916-1945) e Gino Pistoni (1924-1944), che non lottarono per odio né per distruggere, ma per amore e per ricostruire l’Italia al di sopra di ogni fazione, e lo riteniamo degno, oltre che di quella memoria storica che dovrebbe essere imparziale, di essere mostrato come esempio ai giovani, così come era nell’intento dei suoi amici che eressero un cippo commemorativo nel cortile di una scuola elementare. In certi ambienti, la cui influenza sembra spesso preponderante, è consueto affermare che l’Italia, per diventare un Paese «civile», avrebbe dovuto sbarazzarsi della religione cattolica e dare «compimento» alla Resistenza; mi sembra che persone come Mario Simonazzi smentiscano con la loro vita e la loro morte la verità della prima affermazione e facciano rimpiangere che non siano state loro a dare pieno compimento alla lotta di liberazione.

Luca Pignataro